
Può sembrare sorprendente, quasi impossibile per una come me, appassionata di cibo e golosa, però è vero: da piccola non mi piaceva mangiare. In effetti, non ho ricordi di me che gustavo con gioia alcuna pietanza o che provavo piacere nel mettersi a tavola. Non avevo nemmeno fame. Mangiavo poco o niente, costretta dalla mia mamma a dovermi sforzare. Spesso il momento dei pasti era sinonimo di pianti e di tensione. Mi pare incredibile oggi!
Mia nonna – come la stramaggioranza delle nonne – cucinava in una maniera straordinaria eppure è molto più tardi che me mi sono accorta della sua maestria e quindi della mia fortuna di aver mangiato sin da piccola pasti buonissimi, cucinati principalmente a partire da prodotti dall’orto di mio nonno o di un pregiato mercato di quartiere. Forse tra i rarissimi ricordi di cibo che ho di quell’età potrei citare un banale pranzo che avevo mangiato in un castello che avevamo visitato con la scuola. Al menù? Merluzzo e il duo spinaci/uovo. Niente di ché. Però lo avevo raccontato alla mia famiglia. Sicuramente sarà stato per la gita, per il momento lì, più che per il pasto di per sé anche se ne conservo ancora ad oggi un ricordo vivo.
Posso situare l’inizio del mio appetito all’adolescenza, quando il corpo cambia, quando il mondo sembra nuovo, pieno di pericoli, di dubbi e di prime volte. Sono stati anni di grande fame, di abbuffate dopo scuola senza limiti, a mangiare cereali, biscotti – quando c’erano a casa – e di qualsiasi alimento che mi potesse sfamare. Era anche un periodo in cui potevo uscire da sola a fare i miei giri con gli amici o andare a delle feste e mangiare cibo che a casa non c’era perché mamma comprava poche cose sfiziose, quelle erano eccezioni e quindi la possibilità di poter uscire e mangiare quel che volevo era stata per me come se un mondo si aprisse.
Ad aver innescato il mio interesse per la cucina, citerei più elementi; non credo di poterne individuare uno solo in maniera chiara. In primis, tornerei alla mia nonna, persona per cui ho nutrito un amore infinito e che mi ha trasmesso tanto nella vita. Quando andavo a scuola, fino alle medie, pranzavo ogni giorno della settimana dai nonni. Mia nonna cucinava una cucina generosa, pur essendo equilibrata, con una ventina di piatti che non potevano mancare e che si alternavano. Mi piaceva osservarla cucinare e quando mi dava i suoi preziosi consigli che aveva imparato strada facendo. Da adolescente, con tanta fame, arrivavo a casa loro – solo 2 volte a settimana ormai – e provavo ad indovinare il menù del giorno. Sempre gli stessi sapori invariati, gustosi, squisiti. Preparava tutto con cura, era piena di gioia all’arrivo della frutta estiva, faceva la solita torta alle mele ogni domenica per l’ora del tè, il venerdì si mangiava il pesce. Era molto tradizionale – sicuramente lo sono anche io un po’ perché influenzata da lei – e aveva delle abitudini che mi facevano sorridere; per i bambini, il filetto di vitello va impanato, la spremuta di arancia viene spolpata, la pasta si mangia in bianco, come i fagiolini, mentre gli adulti la mangiano con la polpa del pomodoro. Sono particolari suoi che mi fanno tenerezza perché lei voleva offrire il meglio ai suoi ospiti, si dava sempre da fare pur stancandosi. Credo che devo a lei l’amore per il tempo passato in cucina, pazientemente, il desiderio di far piacere agli altri quando mi metto ai fornelli, che sono valori preziosi in cucina e anche al di là.
Un altro elemento che mi ha spinta ad interessarmi sempre di più al cibo sono sicuramente state le mie estati italiane. Eravamo in quella casa di campagna in 12 persone e si iniziava già a metà mattino la preparazione del pranzo. Mia zia ci portava i sapori italiani, toscani perché la cucina è il linguaggio dell’amore e per il poco di tempo che trascorrevamo insieme all’anno, sapeva di regalarci più di semplici pasti, ma momenti di grande valore. Ci faceva assaggiare specialità allora introvabili in Francia, il che dava loro una dimensione ancora più attraente. Cucinavamo fuori, a tritare la verdura, a pensare insieme i menù, a chiacchierare di cibo e non solo. Ci raccontava tutti gli episodi che ci perdevamo il resto dell’anno e io aiutavo, felice di poter fare la mia parte. Erano pranzi e cene animati, con piatti semplici ma sempre saporiti. Qualche giorno c’erano degli antipasti, delle bollicine, qualche portata speciale, semplicemente per il piacere di festeggiare il momento anche senza un motivo. Non potevano mai mancare il vino rosso – rigorosamente toscano o siciliano – e il dolce di fine pasto, tra crostate, mantovane, biscotti secchi, o la meravigliosa ricotta al caffè che mia zia cucinava per il suo fratello, mio papà, a cui voleva un mondo di bene. Più volte, andavamo al ristorante nei nostri locali di fiducia, di cucina tipica toscana con le mie portate preferite che ordinavo ogni volta. Ricordo i bei tempi del Miramonti al passo della Consuma che domina tutta la valle, il ristorante del Castello a Poppi o quello dell’albergo sempre lì. Anche le colazioni con i miei cugini ed i miei primi aperitivi in questa suggestiva regione. La colazione al bar, in particolare, è un rituale tutto italiano che ho sempre adorato. Ho iniziato a pensare che se gli Italiani sono così amichevoli, entusiasti, socievoli, è perché già dal mattino iniziano la giornata nel miglior dei modi: mangiando e bevendo cose buone e chiacchierando con altre persone. Una pausa nel quotidiano, prima di tornare operativi. Tutti quei momenti sono stati per me uno stimolo enorme per la mia curiosità culinaria, di pari con il mio amore grande per il Bel Paese. Andare lì era come assaporare un mondo diverso, assolato, più gustoso, che spesso sognavo quando ero a casa in Francia, lontana da quel mio paradiso segreto, nel bel mezzo del Casentino.
Infine, quest’ultimo elemento è più un insieme di vari fattori che mi hanno portata ad accogliere questa passione: la stampa, i libri con le loro immagini, i testi, le idee. Mi sono messa intuitivamente ad immaginare i sapori che tali visioni mi trasmettevano e da lì a fare delle associazioni tra ingredienti. In parallelo, mi è venuta la voglia di cucinare anche io, come per affermare la mia “indipendenza” allora tutta relativa e dimostrare la mia capacità di creare e di fare. Era un modo aggiuntivo per esprimere la mia grande creatività su un nuovo campo di gioco. Ricordo che il week-end cucinavo dolci mentre in settimana cucinavo qualche cena per i miei e mia sorella usando tutti gli ingredienti disponibili in dispensa e in frigorifero. Mio papà mi incoraggiava sempre e mi congratulava per la mia inventività mentre mamma era un po’ più riservata riguardo le mie scelte più o meno opportune. Sapevo di fare piacere a loro; così si potevano riposare dopo il lavoro e nel mentre, io mi divertivo.
Oggi, definirei “divorante” la mia passione per l’arte culinaria. Dico “arte” ma non mi riferisco specificamente all’alta cucina, ma alla cucina in tutte le sue forme; quella di ogni giorno fatta in casa, il panino come compagno di viaggio, il pranzo di lavoro, il ristorante per una particolare occasione, o così, per il semplice piacere di mangiar bene, le esperienze rare e sontuose degli stellati. A mio parere, a cucina è sempre e ovunque nobile quando viene fatta con il cuore.
L’accelerazione si è fatta 7-8 anni fa quando ho iniziato a percepire uno stipendio e a vivere in città che avevo scelto io e che hanno tanto da offrire. Parigi ha giocato un ruolo fondamentale in tal senso, con l’ampiezza dei locali e la diversità delle cucine proposte; è una città all’avanguardia della scena culinaria che, in compagnia di buongustai, mi ha regalato momenti di epifania che non scorderò. Lì ho assaggiato degli ingredienti per la prima volta, scoperto delle portate che avrei ordinato spesso poi, cucine etniche del tutto nuove per me, ma anche rituali e gesti che accompagnano le esperienze al ristorante. Ho iniziato a scrivere le mie amate liste di ristoranti, bar e pasticcerie “da provare” e ad individuare tra di loro quali sono validi e quali sarebbero diventati delle garanzie in cui tornare nel tempo. Tutte quelle esperienze erano come balsamo al cuore dopo giornate di lavoro pesanti e spesso stressanti. Le mie mappe mentali erano come delle oasi di felicità in cui recarmi per trovare un po’ di pace e di gioia. Capivo quanto fosse importante mangiar bene, quante soddisfazioni ed emozioni era in grado di darmi. Anche nella preparazione dei miei viaggi, ho iniziato a fare delle ricerche su dove mangiare bene, al riparo dai posti turistici, per scoprire quelli più autentici, capaci di svelare l’anima vera di un posto attraverso i suoi sapori.
E così via, la mia passione si è infuocata moltiplicando le esperienze, leggendo come una bulimica, ascoltando podcast sui chef, business model, fenomeni sociali, novità, perdendomi nelle pagine squisite di qualche romanzo, partecipando a corsi, degustazioni ed eventi dedicati, incontrando gente appassionata, per lavoro o per svago, osservando tutta la vita che gira e che si esprime in un ristorante. Ho capito molte cose ma quella più significativa, è stata realizzare quanto avessi voglia anche io di entrare a far parte di questo mondo e di costruire il mio percorso passo dopo passo, mossa da questa passione senza misura.
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